In Fabbrica
musems.ch: la fabbrica del cioccolato e il progetto foreignness (dicembre 2017)
IN FABBRICA:
La Fondazione La Fabbrica del Cioccolato, costituita nel 2015, ha in carico l’attività culturale nell’ex complesso industriale di Torre-Dangio, in Valle di Blenio (Svizzera, Canton Ticino).
Gli obiettivi principali della Fondazione sono: la gestione e lo sviluppo di attività culturali nell’ex complesso industriale; la salvaguardia, la protezione e il mantenimento del patrimonio archeologico-architettonico dell’ex Fabbrica; la trasformazione del luogo in un centro di promozione culturale e artistica; lo stimolo alla cooperazione tra le varie discipline artistiche; l’avvicinamento degli ambienti dell’economia, della finanza, dell’industria e delle scienze all’arte e alla cultura; il sostegno delle tradizioni e della cultura regionali.
Come si può evincere dalla descrizione, un progetto questo, poliedrico oltre che ambizioso, nel quale l’arte in quanto tale occupa un ruolo centrale di catalizzatore e allo stesso tempo trasversale di motore nella generazione di opportunità in termini di ricadute economiche per la Valle con evidenti effetti di carattere sia sociale che politico.
Era evidente sin da subito che si trattava di far coincidere tre fattori fondamentali ma di origine differente: la volontà da parte nostra di creare uno spazio indipendente di produzione artistica; il collocarlo come suggerito dalle autorità locali nell’ambito di un progetto con ricadute di carattere strategico territoriale così come specificamente indicato per quell’area nel Master Plan voluto dall’Associazione dei comuni bleniesi (Ascoble) e ripreso dall’Ente regionale di sviluppo Bellinzona e Valli; la responsabilità sociale nell’interpretare le necessita/desideri della popolazione locale.
Le scelte dunque prima ancora che di carattere programmatico curatoriale nel prendere in carico la direzione artistica e la gestione di una realtà così complessa e fortemente integrata in un contesto ex industriale quale la Cima Norma, e dunque non una presenza creata ad hoc, bensì un drastico cambio di destinazione, comportano necessariamente una delicata operazione di ricontestualizzazione storica mediante un’attenta analisi, nell’ottica di riprendere le fila di complessi equilibri di carattere anche e soprattutto etico sociale, politici, territoriali e di appartenenza, spesso disattesi dai programmi di riconversione delle attività industriali dismesse e dai processi di riqualifica del comparto messi in atto da chi pianifica e di conseguenza spesso irrimediabilmente a danno della collettività.
Il rischio a mio avviso sempre latente è essenzialmente etico, e cioè quello di erigere cattedrali e muri compartimentali , nei quali la popolazione non si riconosce e che rendono di fatto il dialogo con la stessa, già traumatizzata dagli effetti della cessazione delle attività produttive, difficile o inesistente, a scapito invece della creazione di progetti dal basso inclusivi e aggreganti di interazione sociale.
Si trattava non solo di difendere e salvaguardare il patrimonio industriale ma garantirne la continuità e il ruolo di creazione di benessere sociale, svolto dal complesso industriale Cima Norma dismesso dal 1968.
Per la complessità delle ragioni sopra esposte era essenziale dare al progetto un indirizzo preciso ovvero di motore di produzione di idee, e non più di beni di consumo. Dunque una piattaforma di creazione artistica nel più ampio senso del termine, più che il focalizzarsi sul concetto basato sulla mera presentazione, tipico di musei e spazi espositivi in genere, con i quali non avrei comunque voluto entrare in concorrenza, non fosse altro per una netta differenziazione dei ruoli attribuiti agli stessi nel contesto culturale sia locale che cantonale.
La scelta è ricaduta dunque su un progetto strutturato come laboratorio artistico di analisi sull’interazione fra arte, nelle sue diverse forme espressive, e territorio, inteso come patrimonio culturale, sociale, politico in divenire, e in particolare sugli impatti sul tessuto sociale della Valle di Blenio, che nel tempo ha vissuto la contrapposizione di contesti e contrasti economico culturali, sia locali che globali.
Stabilito tutto questo, penso che la direzione artistica di un progetto di questa caratura non possa prescindere dall’elaborazione di linee guida programmatiche precise, anche se di largo respiro, entro le quali direzionare l’ispirazione e la creatività, per non lasciare alla sola interpretazione degli attori coinvolti le modalità di raggiungimento degli obbiettivi di progetto prestabiliti.
E di qui la decisione di conferire al programma curatoriale un tema biennale la cui scelta è caduta su “foreignness”
Foreignness è un neologismo che in italiano suonerebbe come “estericità” ovvero estraneità, un nuovo termine che vuol far emergere le diverse forme e modalità di sentirsi estraneo, diverso, non più appartenente, e conseguentemente avulso da un determinato contesto in costante evoluzione. Un male comune questo che in particolare di questi tempi ci affligge giornalmente e che tende a spesso rompere equilibri già precari, e che può manifestarsi quale sensazione più evidente laddove – come nel caso di luoghi o persino intere regioni periferiche, che hanno subito importanti mutamenti nel contesto sociale, ma anche talvolta persino geografico, morfologico e ambientale sul territorio – non sempre sono stati accompagnati da una presa di coscienza seguita poi da azioni di accompagnamento e misure atte a contrastarne gli effetti.
Dunque con foreignness si voleva incentivare gli artisti di volta in volta invitati, a trattare da diverse angolature il concetto di estraneità, nell’intento di innescare e riattivare, mediante l’attività creativa nel più ampio senso del termine, quel processo di riappropriazione e salvaguardia del patrimonio culturale locale, nel quale ora la Valle sembra aver perso traccia e non più riconoscersi.
Al fine di concretizzare i presupposti appena descritti, e centrare al meglio gli obbiettivi si trattava di predisporre un’offerta che rispondesse a un criterio di dinamicità, apertura, partecipazione e coinvolgimento, inclusione, curiosità e attrattività.
Si è optato per la formula di “festival delle arti”, che al meglio avrebbe potuto svolgere funzione di polo di aggregazione sociale e di condivisione, e in concreto così interagire con la realtà locale, per confrontarsi con essa mediante un’offerta proveniente dal basso, al fine di facilitare un processo partecipativo e di sviluppo urbano.
L’idea era quella in un certo qual senso di demistificare, portandola a una dimensione organizzativa meno istituzionale la programmazione, e dunque renderla più variegata ed eterogenea possibile con un numero consistente di attività in svolgimento allo stesso tempo e spesso magari anche di breve durata, occupando tutti gli spazi espositivi a disposizione, circa 2.700 metri quadri su tre livelli.
Dunque un immenso laboratorio, una fabbrica nella fabbrica per un’offerta trasversale di diverse espressioni artistiche, con la possibilità anche di sovrapporsi interagendo tra di loro, ma sempre unite da un filo conduttore, in questo caso “foreignness”.
Mi immagino un “pellegrinaggio” di tutta la gente che si riconosce nella forza che la produzione artistica può conferire alla causa del progetto, che proviene da ogni parte del mondo portando con se il proprio bagaglio artistico, così da generare quel confronto essenziale per rinnovare, arricchire e rafforzare il patrimonio culturale locale.
Questo è il compito del festival, di “foreignness” e del progetto nel suo insieme.
Il programma presente, passato e futuro, si estrinseca di conseguenza sulla base dei criteri sopra descritti e ha visto e vedrà artisti al lavoro di ogni età e provenienza, che si riconoscono nel progetto e intendono contribuire fattivamente allo stesso, partendo da un comune denominatore: calarsi nella realtà locale, interagire con essa nei vari ambiti, non ultimo quello ambientale, e creare con e per il “luogo”e dunque lasciare un segno riconoscibile nel tempo.
E se anche il visitatore può sin qui aver avuto l’impressione di essere confrontato con una serie di mostre, di fatto il lavoro che le ha rese possibili è stato certamente di creazione progettuale da parte dei vari artisti, che hanno coinvolto per la gran parte attori locali che, con i loro prodotti e servizi, sono di fatto parte integrante dei lavori esposti.
Si sono susseguiti artisti quali l’italiana Anna Galtarossa con la sua installazione “kamchatka ‘16”, l’argentino Danial Gonzalez con “paper building”, l’austriaco Oliver Ressler con il suo lavoro cinematografico “Confronting Comfort’s Continent”, il ticinese Fabrizio Giannini con “schlosshotel pension riviera” ed il collettivo spagnolo Ivo Rovira e Ana Ponce con “cacao collective” mediante una suggestiva installazione rievocativa e didattica sull’intero ciclo produttivo del cacao.
Tra l’altro il cacao e il cioccolato appartengono da secoli alla tradizione bleniese e della sua emigrazione. Questi sono alcuni degli esempi di proposte dell’offerta che la fondazione ha presentato al suo pubblico nel corso dei suoi primi 8 mesi di vita.
Lavori questi che hanno ridato una nuova forma di vita alla fabbrica e con la loro presenza hanno contribuito a rafforzare quel “fil rouge” di dialogo con il territorio e la sua gente.
L’immediato futuro prevede artisti quali tra gli altri l’israeliano Yuval Avital con “three grades of foreignness”, la ticinese Miki Tallone con “ch terraforming”.
Franco Marinotti
Presidente
Direttore artistico
Fondazione la Fabbrica del Cioccolato